The Canary Tweet

GIVEN TO FLY – by Arianna

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He still stands
And he still gives his love, he just gives it away
The love he receives is the love that is saved
And sometimes is seen a strange spot in the sky
A human being that was given to fly*

C’ho fantasticato a lungo durante i sei mesi che si sono frapposti tra la data di acquisto del biglietto e l’evento, ma mai, mai, mai mi sarei immaginata l’emozione che sarei riuscita a provare in quelle tre ore.

Caldo afoso, un po’ di stanchezza per il viaggio mista a eccitazione, voglia di entrare, paura di chissà cosa, una serie di sensazioni non ben identificate, le mani sudate ai tornelli mentre passavo il biglietto per la convalida. Prima un pezzo di biglietto, poi un altro ancora, infine la ricerca del nostro settore; scale, corridori, persone, volti, il sole, l’ombra, qualche foto giusto per immortalare il momento, un abbraccio con Lucia per assaporare ancora di più quella gioia che stava crescendo dentro.

E poi siamo finalmente entrati: imponente e brulicante, San Siro ha aperto il suo ventre e si è lasciato invadere in modo placido. Nei maxi schermi veniva proiettata la partita Italia-Costa Rica (sorvoliamo sul deludente epilogo), il prato era già affollato ma non pienissimo, nei vari anelli si potevano vedere i colori dei tanti seggiolini ancora vuoti, una specie di arcobaleno di plastica dalla forma bizzarra.

Ci siamo seduti, ci siamo accomodati e ho cominciato a guardarmi intorno. Benché volessi in qualche modo guardare la partita, c’era una parte di me irrequieta che non smetteva di far gironzolare gli occhi ovunque, avida di conoscere, frugare, capire, in un tentativo affannoso di adattamento. Volevo rendermi conto di dove ero, perché ancora non lo avevo razionalizzato bene.

Ci siamo, mi sono detta, sei dentro, tra poco più di un’ora finalmente li sentirai. Avevo aspettato otto anni e finalmente il momento era arrivato: ero al concerto dei Pearl Jam.

Il tempo è passato veloce, intervallato da chiacchiere, risate, pellegrinaggi alla toilette, telefonate al mio ragazzo che di lì a poche ore si sarebbe esibito anche lui in un concerto (sigh!) nella nostra città, e intanto lo stadio si è riempito completamente.

E poi… è cominciato.

Un boato si è alzato dal prato strapieno, i maxi schermi si sono accesi proiettando le immagini di piedi che entravano sul palco e si posizionavano vicino agli strumenti. Il mio cuore ha fatto un tuffo, una capriola e un salto mortale triplo… due note, forse tre e lo stadio intero ha capito di quale canzone si trattava. Ma aveva importanza? Avremmo esultato più o meno se non fosse stata “Release” ma un altro pezzo? No, sarebbe stato uguale, perché quello che contava era dove, come e perché eravamo lì, tutti quanti, in sessantamila.

Una canzone, un’altra, un’altra ancora. Mentre un giugno alla vigilia del suo equinozio stentava a cedere il passo alla notte, noi ci facevamo trascinare nei vortici di quelle note che così tante volte abbiamo ascoltato in macchina, in palestra, a casa, in ufficio, cantandole magari a squarciagola, oppure accennandole con un filo di voce. Ma lì era tutto vero, tutto reale, noi cantavamo dal vivo insieme a Eddie Vedder, ci muovevamo insieme alle fluttuazioni della chitarra di McCready, picchiavamo i piedi, le mani unendoci nella danza primitiva della batteria di Matt Cameron.

La sera è scesa, ci ha avvolto completamente come un guscio: fuori il resto del mondo, la realtà, il tempo e lo spazio, dentro la musica e niente altro.

Le luci del palco giocavano con noi, illuminavano i vari settori, sembravano tentacoli colorati che cercavano di agguantarci ad ogni ritornello, quasi senza sosta, mentre immagini in tempo reale ci proiettavano direttamente sul palco per lasciarci godere di particolari che altrimenti sarebbero stati privilegio dei pochi che erano nelle prime file.

Ad un tratto sono riuscita ad uscire da quella bolla per cercare di catturare un’immagine di insieme che poteva regalarmi altre sensazioni. Ed è stato sconvolgente vedere una oscillante moltitudine umana con le braccia alzate  lasciarsi cullare dalle note, travolta ma non sconvolta dalle emozioni della musica: tutti vicini, tutti uniti, come fossimo un corpo unico con centoventimila mani, centoventimila occhi e un solo cuore pulsante, enorme, caldo. E’ stata questa la magia più grande, il ricordo più forte e inebriante che mi sono portata via. Certo, poi un cinico potrebbe anche obiettare che quello che sto dicendo è una ovvietà, e forse è vero, ma cosa c’è di male nel percepire la meraviglia anche nella cosa più ovvia? Anzi, sai cosa ti rispondo caro cinico? Mi dispiace per te, davvero. Mi dispiace perché non riesci a sentire i brividi sulla tua pelle nel vedere una folla acclamante e colma di gioia, non hai la curiosità di lasciarti stupire dall’incanto di una marea formata da persone diversissime, che andavano dai 25 ai 50 anni, unita, compatta, omogenea, ognuno con la sua identità e distinto nella sua individualità ma intimamente connesso con gli altri cinquantanovemilanovecentonovantanove human beings. Forse, caro cinico, tu sei cieco e sordo perché puoi vedere solo con gli occhi e sentire solo con le orecchie. Chissà chi ti ha portato via la capacità di usare tutto il resto per assorbire il mondo.

Ti perdi la possibilità di connetterti con l’umanità senza servirti dei social network e delle più avanzate forme di tecnologia: non ricordi più che la connessione più intima ci appartiene in modo primitivo, atavico, imprescindibile.

E ti perdi la magia della musica, quella che nasce da uno strumento, ma che hai anche tu dentro, le percussioni del tuo cuore, la melodia del tuo sangue che scorre, i fiati del tuo respiro, gli archi delle tue corde vocali.

Ero lì, con Lucia e Carolina (gli altri due Canarini!) Andrea e Alessandro, amici, persone care, ero lì con il mio amore nel cuore e nella testa, ero lì con altre migliaia di persone con cui scambiare chiacchiere nell’anticamera del bagno come se già ci si conoscesse, con quella confidenza, anzi, con l’empatia che si crea tra estranei che condividono le stesse emozioni.

Possiamo demolire ogni cosa passandola per ovvietà oppure possiamo accorgerci che togliere il senso di ovvietà a tutto ci restituirà il sapore di ogni minuto, di ogni giornata, di ogni esperienza e di ogni emozione che resterà unica e irripetibile… come se fossimo esseri umani a cui è stato concesso di volare.

 

*E’ ancora in piedi/ E ancora dà il suo amore, ancora lo regala/ L’amore che riceve è l’amore che viene salvato/ E qualche volta si vede uno strano punto nel cielo/ Un essere umano a cui è stato concesso di volare (Given To Fly, Pearl Jam, Yeld, 1998)

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Pics by Arianna De Santis e Alessandro Storti